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Intervista sul bilinguismo a François Grosjean


Questa intervista è stata precedentemente pubblicata in lingua inglese sul sito ufficiale del Prof. François GrosjeanViene qui pubblicata con l’autorizzazione del Prof. François Grosjean e con traduzione in italiano a cura di Alice de Carli Enrico.


Domande poste da Judit Navracsics, Università di Veszprem, Ungheria
Febbraio 2002

Vivere con due lingue

  • Si ricorda di come è diventato bilingue? 

Sono nato nel 1946 a Parigi. Mia madre era britannica e mio padre francese, ma non sono diventato subito bilingue perché i miei genitori, inizialmente, mi parlavano in francese. È stato solo quando fui mandato in un collegio inglese in Svizzera, all’età di 7 anni, che acquisii l’inglese alla maniera “nuota o affoga”. Non la ricordo come un’esperienza difficoltosa perché il personale e i miei coetanei si rivelarono molto disponibili. Rimasi in quella scuola per sette anni e, successivamente, quando compii 14 anni, fui mandato in un collegio in Inghilterra dove rimasi fino alla maturità. Da un punto di vista culturale si trattò di un cambiamento molto difficile e non riuscii mai davvero a diventare totalmente monoculturale (per esempio solo inglese) così come gli altri volevano che diventassi. Tuttavia, dopo 11 anni in una scuola inglese, non ero più del tutto francese, e il mio ritorno in Francia per frequentare l’università a 18 anni fu un cambiamento non da poco. Mi ci vollero diversi anni per adattarmi alla Francia sotto un profilo linguistico, ma soprattutto culturale, e questo spiega molte delle riflessioni che sviluppai nel libro che avrei scritto alcuni anni dopo.

  • La Sua attuale famiglia è bilingue?

Sì, nonostante quanto ho scritto nella dedica all’inizio del mio libro:

A mia moglie, Lysiane, per il suo incoraggiamento e il suo istruttivo bilinguismo, e ai miei figli, Marc ed Eric, per il loro monolinguismo, così categorico eppur così naturale,

l’intera famiglia è attualmente bilingue in inglese e francese. Nel 1982, dopo circa otto anni trascorsi negli Stati Uniti, tornammo in Europa per un anno e i nostri due ragazzi, allora monolingui in inglese, acquisirono il francese. Mantenemmo vivo l’uso di questa lingua quando tornammo per tre anni, e a partire dal 1987, quando ci siamo stabiliti infine in Europa, sia il francese che l’inglese sono diventate le lingue di famiglia, che usiamo in modo intercambiabile. Cambiamo spesso la lingua di base e commutiamo il codice da una lingua all’altra costantemente.

  • Quale approccio ha adottato con la Sua famiglia quando i Suoi figli erano piccini?

Nonostante volessimo che i nostri figli fossero bilingui, vivere in un ambiente inglese in un paese come gli Stati Uniti lo rese molto difficile. È risaputo che i bambini non acquisiscono (o acquisiscono solo parzialmente) la lingua di minoranza se non vi è un supporto di tipo educativo da parte della comunità, o altri fattori di stimolo che ne rendano l’uso naturale. Per tali ragioni, è stato solo quando si sono trovati in un ambiente francofono per un anno, nel 1982, che i nostri ragazzi sono finalmente diventati naturali fruitori della lingua francese. In seguito, al nostro ritorno negli Stati Uniti, ci siamo impegnati a mantenere vivo il loro francese (ma nel modo più naturale possibile).

  • Fino a che punto il Suo essere bilingue ha determinato l’area di ricerca che ha scelto?

Il mio personale, e precoce, interesse per il bilinguismo trovò un primo sfogo nella mia tesi di laurea presso l’Università di Parigi, per la quale mi occupai dello studio dei bilingui in inglese e francese a Parigi. Si trattò per me di un modo per iniziare a comprendere chi ero e per cominciare a pensare al bilingue come a un tipo diverso di locutore/ascoltatore. Fu mentre preparavo quel lavoro che scoprii ricercatori come Weinreich e Haugen, tra gli altri. Non mi sarei mai sognato che con lo stesso Einar Haugen saremmo addirittura diventati buoni amici.

A proposito di “Life with two languages” (lett. “Vivere con due lingue”)

  • Che cosa l’ha portata a scrivere questo libro?

L’idea di scrivere questo libro è nata quando mi venne chiesto di tenere un corso sul bilinguismo negli Stati Uniti e mi resi conto, semplicemente, che non vi era nessun libro che coprisse tutti gli aspetti inerenti a quest’ambito. Chiesi dunque alla Harvard University Press, con molta ingenuità, se fosse interessata a mettermi sotto contratto perché scrivessi quel libro mancante. Mi chiesero di scrivere un capitolo, lo esaminarono e mi diedero il via libera. Nel frattempo avevo incontrato Einar Haugen, diventando amico suo e della moglie, Eva. Einar Haugen era esattamente il tipo di persona di cui un giovane autore aveva bisogno: mi prese sotto la sua ala, si dimostrò di grande aiuto e lesse ogni capitolo del mio lavoro. Di tutti gli autori che si erano occupati di bilinguismo, sentivo che lui era il più “umano” (nel senso che scriveva sulla persona bilingue) e provai a seguire il suo esempio nelle mie pagine (da questo derivano le molte considerazioni di prima mano presenti nei riquadri). Volevo che il mio libro fosse esauriente, ma soprattutto desideravo mostrare il punto di vista del bilingue. Molto di ciò che era stato scritto sui bilingui presentava il punto di vista di un monolingue, mentre era il bilingue che io volevo far emergere. Ancora oggi, la mia più grande fonte di soddisfazione è quando i bilingui mi dicono di apprezzare il mio libro.

  • Quali posizioni desiderava difendere nel Suo libro (e negli scritti successivi)?

Nello scrivere il mio libro, e sin da allora, ho cercato di difendere diverse posizioni che ritengo importanti, ovvero:

  • il bilinguismo è l’uso di due (o più) lingue nella vita di tutti i giorni e non il sapere usare due o più lingue altrettanto bene e in modo ottimale (come pensano molti profani);
  • il bilinguismo è estremamente diffuso, e nel mondo di oggi rappresenta la norma (e non l’eccezione);
  • la vecchia concezione monolingue del bilinguismo ha avuto molte conseguenze negative, una delle peggiori è il fatto che molti bilingui si rivelano molto critici rispetto alla propria competenza linguistica, non considerandosi bilingui;
  • il bilingue è un locutore/ascoltatore unico che dovrebbe essere studiato in quanto tale e non sempre posto in contrapposizione al monolingue. Il bilingue usa due lingue – separatamente o insieme – per ragioni diverse, in diversi domini della vita, con persone diverse (si faccia riferimento al Principio di complementarietà trattato più avanti). Visto che, solitamente, i bisogni e gli usi delle due lingue sono piuttosto diversi, capita di rado che il bilingue sia ugualmente o perfettamente fluente nelle sue lingue;
  • nella vita di tutti i giorni, i bilingui si ritrovano in alcuni punti lungo un continuum situazionale che li induce ad attivare particolari modi linguistici. Il concetto di modo linguistico è un aspetto cruciale (si faccia riferimento anche a quanto segue) e aiuta a distinguere determinati fattori quali interferenza, commutazione di codice, prestiti, ecc. che non sono mai stati effettivamente distinti da ricercatori come Weinreich;
  • coloro che mettono alla prova (o esaminano) i bilingui devono valutare se la persona è in una fase di ristrutturazione della lingua (per esempio se sta acquisendo una nuova lingua e/o perdendo la prima) o se ha raggiunto un livello stabile di bilinguismo. Inoltre, devono essere tenuti in considerazione fattori quali i domini d’uso delle lingue, il modo linguistico in cui si trova la persona soggetta allo studio, ecc.

Aspetti del bilinguismo

  • È ampiamente noto in tutto il mondo il Suo approccio olistico al bilinguismo. Tuttavia, molte persone mantengono ancora una prospettiva monolingue, e i bilingui stessi affermano di non essere bilingui dal momento che la loro competenza linguistica non è allo stesso livello in entrambe le lingue. Pensa che si tratti di un fenomeno diffuso?

Sì, temo che lo sia. Nonostante molti ricercatori in tutto il mondo condividano la stessa concezione del bilingue, basata sull’uso regolare di due (o più) lingue (o dialetti) nella vita quotidiana, il profano mantiene ancora una prospettiva monolingue del bilingue, secondo la quale questi, nelle sue lingue, dovrebbe essere bilanciato ed egualmente fluente. Il problema è che se si dovesse dar seguito a questo concetto di “due monolingui in un’unica persona”, non avremmo modo di definire metà della popolazione mondiale. Volendo parlarne più seriamente, andremmo a proporre e descrivere una persona estremamente rara. Di fatto, si tratterebbe di una figura simile a quella degli interpreti delle conferenze internazionali, ma persino loro hanno le proprie specializzazioni. Credo che sia compito di noi ricercatori modificare l’erronea visione che la gente comune ha dei bilingui. Mi rendo conto che ci potrebbe volere molto tempo, ma spero che un giorno raggiungeremo questo obiettivo.

Difendendo il mio approccio olistico, penso costantemente a quei bilingui che sminuiscono il proprio bilinguismo per il fatto di non padroneggiare le proprie lingue allo stesso livello. Ciò li porta a provare insicurezza e a preoccuparsi in merito alla loro condizione di comunicatori umani. Di questo mi rattristo, poiché tutti i bilingui dovrebbero nutrire dei sentimenti positivi rispetto al proprio bilinguismo. Spesso gli ricordo che i monolingui devono coprire tutti i domini della vita con una lingua sola mentre loro, in quanto bilingui, possono farlo con due o più lingue (una lingua per alcuni domini della vita, l’altra o le altre lingue per altri domini, e due o più lingue per altri domini ancora). Sono comunicatori umani, come i monolingui, ma comunicano semplicemente in maniera diversa.

  • Lei afferma di analizzare i bilingui stabili, ma una persona potrà mai essere un bilingue stabile considerando il fatto che il lessico mentale continua a mutare continuamente?

È vero che la conoscenza lessicale, così come altre conoscenze linguistiche, muta nel tempo, ma probabilmente molto più lentamente per il bilingue stabile. Nei miei studi osservo i bilingui che al momento non stanno ristrutturando le proprie lingue (non si sono appena trasferiti da un paese all’altro, non stanno acquisendo una lingua o dimenticandone un’altra, ecc.). Tutti i bilingui sono interessanti (chi sta diventando bilingue, chi sta ristrutturando le proprie lingue, ecc.) e tutti dovrebbero essere studiati. Mi concentro tuttavia sulle persone che hanno raggiunto un qualche livello di stabilità semplicemente perché risulta più semplice studiarli a livello sperimentale (ricordo che sono uno psicologo sperimentale e che effettuo esperimenti sui bilingui).

  • Nella sua definizione di bilinguismo Lei menziona due (o più) lingue (o dialetti). Questo significa che considera il bilinguismo e il multilinguismo come se fossero la stessa cosa? Non ci sono differenze sia sotto un profilo quantitativo che qualitativo?

Questa è una domanda molto difficile, per la quale non ho una risposta chiara. Ad ogni modo non sarei sorpreso se, nel sapere sul multilinguismo quanto sappiamo sul bilinguismo, ci rendessimo conto probabilmente che ci sono tante analogie ma anche un certo numero di differenze. Sono felice di vedere che gli studi sul multilinguismo ricoprano nella letteratura un’importanza via via crescente. Sono anche contento di constatare che molti concetti e approcci sviluppati per studiare l’acquisizione, la conoscenza e l’uso di due lingue vengano estesi in modo abbastanza semplice a tre o più lingue, a volte dopo essere stati adattati. Ha decisamente senso, dopotutto.

Il principio di complementarietà

  • Di recente ha suggerito che il bilingue sia caratterizzato dal principio di complementarietà. Può spiegare che cosa intende?

Sono molte le ragioni che fanno sì che due lingue entrino in contatto e che promuovano quindi il bilinguismo: migrazioni di vario tipo (economiche, politiche, religiose, legate all’istruzione), nazionalismo e federalismo, istruzione e cultura, scambi e commercio, matrimoni misti, ecc. Questi fattori creano varie esigenze linguistiche in persone che entrano in contatto con due o più lingue e che sviluppano competenze nelle proprie lingue nella misura richiesta da tali necessità. In situazioni di contatto è raro che tutti gli aspetti della vita richiedano la stessa lingua (se così fosse, non esisterebbero bilingui) o che richiedano sempre due lingue (la lingua A e la lingua B al lavoro, a casa, con gli amici, ecc.). Il tutto ci conduce a ciò che ho chiamato il “principio di complementarietà”, che definisco come segue:

I bilingui solitamente acquisiscono e usano le proprie lingue per scopi diversi, in diversi domini della vita, con persone diverse. Aspetti della vita differenti richiedono di solito lingue differenti.

È precisamente per il fatto che le esigenze e gli usi delle lingue sono di solito piuttosto diversi che i bilingui sviluppano di rado una totale e uguale capacità di parlare correntemente nelle proprie lingue. Il livello di scorrevolezza raggiunto in una lingua (più precisamente, nell’abilità linguistica) dipenderà dal bisogno di quella lingua e sarà specifico a un dominio.

  • Perché è importante il principio di complementarietà?

In linea generale, la mancata comprensione del principio di complementarietà ha rappresentato il più grande ostacolo nell’affermazione di una chiara immagine dei bilingui e ha avuto molte conseguenze negative: i bilingui sono stati descritti e valutati considerando il loro grado di scorrevolezza ed equilibrio nelle proprie lingue (quando di fatto sono elementi raramente equilibrati); le abilità linguistiche nei bilingui sono state quasi sempre valutate secondo i criteri adottati coi monolingui (ma i monolingui usano solo una lingua per tutti i domini della vita, mentre i bilingui ne usano due o più); la ricerca sul bilinguismo è stata spesso condotta su una lingua alla volta e l’una separatamente dall’altra (l’uso della lingua A o della lingua B, quando di fatto entrambe le lingue sono spesso usate contemporaneamente); e, infine, molti bilingui valutano ancora le proprie competenze linguistiche come inadeguate.

  • Come può il principio di complementarietà aiutarci a capire il bilingue?

Ci aiuta a comprendere un buon numero di fenomeni. In primo luogo, riflette la vera configurazione del repertorio linguistico del bilingue: quali lingue sono conosciute e fino a che punto, per quali scopi sono usate, con chi e quando, perché una lingua è meno sviluppata dell’altra, ecc.

In secondo luogo, ci aiuta a spiegare perché il repertorio linguistico del bilingue può mutare nel tempo: man mano che l’ambiente cambia, cambiano anche le esigenze legate a particolari abilità linguistiche, così come cambierà anche la competenza del bilingue rispetto a queste. Nuove situazioni, nuovi interlocutori e nuove funzioni della lingua implicheranno nuove necessità linguistiche e muterà, pertanto, la configurazione linguistica della persona coinvolta.

In terzo luogo, una crescente comprensione del principio di complementarietà ha mutato, negli ultimi anni, il punto di vista dei ricercatori nei confronti dei bilingui. I bilingui ora vengono considerati non tanto come la somma di due (o più) monolingui completi o incompleti, quanto piuttosto come locutori-ascoltatori specifici e pienamente competenti che hanno sviluppato una competenza comunicativa analoga a quella dei monolingui, ma differente nella sua natura. Ciò sta conducendo, a sua volta, a una ridefinizione della procedura usata per valutare le competenze del bilingue. Oggi i bilingui stanno cominciando a essere studiati in base al loro repertorio linguistico complessivo, e ora vengono presi in considerazione i domini d’uso e le funzioni delle varie lingue del bilingue.

Infine, il principio di complementarietà spiega la ragione per cui i bilingui normali non sono di norma buoni traduttori ed interpreti. Alcuni possono non conoscere gli equivalenti traduttivi nell’altra lingua (parole, frasi, espressioni fisse, ecc.), che a loro volta porterebbero a problemi di percezione e resa. A meno che i bilingui non abbiano acquisito la propria seconda lingua in un modo che li abbia portati ad apprendere anche gli equivalenti traduttivi, molti di loro potrebbero scoprire di avere mancanze terminologiche in diversi domini (lavoro, religione, politica, sport, ecc.), pur sembrando fluenti nelle proprie lingue.

Modo linguistico, commutazione di codice, prestito ed interferenza

  • Lei ha sviluppato il concetto di modo linguistico. Ci può dire di che cosa si tratta?

Il modo linguistico è lo stato di attivazione delle lingue che usa il bilingue e si tratta di meccanismi di elaborazione delle lingue in un dato momento nel tempo. I bilingui si trovano in vari punti su un continuum situazionale che risulterà in un particolare modo linguistico. A una estremità del continuum, i bilingui sono in un modo linguistico totalmente monolingue poiché stanno interagendo con monolingui dell’una o dell’altra lingua che conoscono. Una lingua è in modalità attiva, l’altra disattivata. All’altra estremità del continuum, i bilingui si trovano in un modo linguistico bilingue, poiché stanno comunicando con bilingui che condividono le loro due (o più) lingue e con cui possono mescolarle (ad esempio con la commutazione di codice o il prestito). In questo caso entrambe le lingue sono attive, ma quella usata come lingua principale di comunicazione (la lingua di base) lo è più dell’altra.

Quelli descritti sono gli estremi, ma i bilingui si trovano anche in punti intermedi in base a fattori quali: interlocutore, situazione, contenuto del discorso e funzione dell’interazione.

  • Lei crede che il modo linguistico sia importante nello studio dei bilingui. Perché?

Il modo linguistico ha ricevuto ben poca attenzione nella ricerca sul bilinguismo ma si tratta, ciononostante, di un fattore fondamentale: offre una visione più fedele circa il modo in cui i bilingui usano le proprie due lingue, separatamente o insieme; ci aiuta a comprendere i dati ottenuti da varie popolazioni bilingui; può spiegare, in parte, quanto risulta problematico relativamente ad argomenti quali: rappresentazione ed elaborazione della lingua, interferenza, commutazione di codice, enunciazione mistilingue nei bambini e negli afasici bilingui, ecc.; e, infine, è invariabilmente presente nella ricerca sul bilinguismo come una variabile indipendente, di controllo o di disturbo, e occorre pertanto prestarvi sempre attenzione.

Mi lasci fare solo un esempio tra tanti. Nella letteratura sullo sviluppo linguistico del bilingue, alcuni hanno suggerito che i bambini che acquisiscono due lingue contemporaneamente attraversano una fase precoce di fusione nella quale le lingue rappresentano, di fatto, un solo sistema (un unico lessico, un’unica grammatica, ecc.). Apprendono poi lentamente a distinguere le proprie lingue, prima separando il lessico e successivamente la grammatica. Ne è prova quanto deriva dall’osservazione dell’enunciazione mistilingue in bambini bilingui molto piccoli e dal fatto che ci sia una graduale riduzione di questo loro tipo di enunciazione man mano che crescono d’età. Tuttavia, questo punto di vista è stato criticato da un certo numero di ricercatori come Juergen Meisel e Fred Genesee, tra gli altri, e uno dei punti che viene ribadito ogni volta (in aggiunta al fatto che gli equivalenti traduttivi potrebbero non essere conosciuti nell’altra lingua; si faccia riferimento al principio di complementarietà) è che il contesto in cui sono state condotte le registrazioni per gli studi hanno probabilmente indotto questa enunciazione mistilingue, poiché risultavano raramente (se non mai) monolingue. In questi studi i bambini erano probabilmente in una modalità bilingue ed è per questo che si è verificata l’enunciazione mistilingue.

  • Vi è un certo numero di equivoci e un po’ di confusione in merito alle definizioni di commutazione di codice, mescolanza linguistica, prestito e interferenza. Ci dica qualcosa prima di tutto sull’interferenza.

Come ho appena detto, credo che molta dell’incomprensione relativa a queste categorie derivi dal fatto che i ricercatori non tengono conto del modo linguistico del bilingue quando studiano la sua produzione linguistica. L’enunciazione mistilingue (che per me è un termine di copertura per la commutazione di codice e il prestito) non si verifica di solito in una modalità monolingue (nonostante ci siano alcune eccezioni). Nonostante ciò, in questa modalità si possono trovare interferenze, che sono deviazioni specifiche del locutore dalla lingua utilizzata, causate dall’influenza dell’altra lingua o lingue. Possono verificarsi a qualsiasi livello della lingua (fonologico, lessicale, sintattico, semantico, pragmatico) e in tutte le modalità (scritta, parlata o gestuale). Le interferenze possono essere di due tipi: vi sono interferenze statiche, che rispecchiano tracce permanenti di una lingua sull’altra (perciò un aspetto dell’interlingua) e vi sono interferenze dinamiche, ovvero le intrusioni passeggere dell’altra lingua (disattivata), come quando si muta accidentalmente l’accento di una parola per via delle regole legate agli accenti dell’altra lingua, o nel caso si usi momentaneamente una struttura sintattica che deriva dalla lingua che non si sta utilizzando, ecc. Si possono studiare le interferenze esclusivamente se il bilingue si trova in una modalità monolingue, poiché normalmente non si verificano altre forme di mescolanza (commutazione di codice e prestito) in tale modalità.

  • Per quanto riguarda la commutazione di codice e il prestito, invece?

In una modalità bilingue, una volta che è stata scelta una lingua di base, i bilingui possono introdurre l’altra lingua (la lingua “ospite” o “integrata”) in vari modi. Uno di questi consiste nella commutazione di codice, con la quale si intende il completo passaggio all’altra lingua per una parola, una frase, un periodo. Un altro consiste nel prendere a prestito una parola o un’espressione breve da quella lingua e adattarla a livello morfologico (e spesso fonologico) nella lingua di base. In questo modo, a differenza della commutazione di codice, che è la giustapposizione di due lingue, il prestito è l’integrazione di una lingua in un’altra. Molto spesso vengono prese a prestito sia la forma che il contenuto di una parola (per creare ciò che è stato definito “una parola in prestito” o semplicemente un “prestito”). Un secondo tipo di prestito, chiamato “estensione semantica”, consiste nel prendere una parola nella lingua di base ed estendere il suo significato fino a farlo corrispondere a quello della parola nell’altra lingua, o nel modificare la posizione delle parole nella lingua di base secondo uno schema fornito dall’altra lingua e, in questo modo, creare un nuovo significato.

Sono convinto, come Shana Poplack, che sia importante distinguere i prestiti caratteristici (anche chiamati “prestiti del discorso” o “prestiti occasionali”) da parole che sono diventate parte del vocabolario della comunità linguistica e che usano anche i monolingui (chiamate “prestiti della lingua” o “prestiti consolidati”).

Psicolinguistica del bilinguismo

  • Come considera le rappresentazioni mentali del bilingue?

Credo ancora fermamente nella differenza tra competenza ed esecuzione. Il bilingue conosce due o più lingue (a livelli diversi) e usa questa conoscenza quando recepisce e produce nelle sue lingue, parlate singolarmente o contemporaneamente come una lingua mista. Il concetto di “rappresentazione” può essere usato per descrivere la conoscenza (ad esempio la competenza grammaticale, lessicale, ecc.) o una fase nell’uso effettivo della lingua: la rappresentazione che viene verbalizzata durante la produzione linguistica, o la rappresentazione che è conseguenza dell’elaborazione nel corso della percezione linguistica (si parla allora di rappresentazione interpretativa).

  • Alcuni ricercatori affermano che la memoria bilingue non esiste. Cosa ne pensa?

Penso sia importante separare i processi della memoria da quello che nella memoria viene immagazzinato. I processi della memoria permettono di collocare informazioni in diverse memorie (iconica, a breve termine, a lungo termine, ecc.) che, probabilmente tra i parlanti, siano essi monolingui o bilingui, sono molto simili, se non identiche. Tuttavia, le memorie linguistiche permanenti (che contengono la conoscenza che abbiamo di lessico e grammatica) devono essere diverse, in larga parte, per le lingue note. I bilingui hanno due reti linguistiche, entrambe indipendenti e interconnesse. Sono indipendenti nel senso che permettono a un bilingue di parlare una sola lingua; sono interconnesse nel senso che il discorso monolingue dei bilingui mostra spesso l’interferenza attiva dell’altra lingua, e questo si rivela quando i bilingui parlano ad altri bilingui ricorrendo piuttosto prontamente alla commutazione di codice e al prestito.

Questa prospettiva è stata a lungo difesa da Michel Paradis, secondo il quale entrambe le lingue vengono immagazzinate in modo analogo in un unico sistema esteso, pur essendovi elementi di ciascuna lingua che, trovandosi spesso in contesti diversi, formano reti separate di connessioni, perciò un sottosistema entro un sistema più grande. È ciò che Paradis chiama “ipotesi del sottoinsieme”.

  • Cosa ne pensa della struttura del lessico mentale? Le categorie di Weinreich sono un poco antiquate, ma quali sono le Sue opinioni riguardo alla distinzione tra composta, coordinata e subordinata?

Nutro un profondo rispetto per il lavoro di Uriel Weinreich, che ritengo non sia mai stato compreso del tutto. Le sue categorie non si applicavano solo al significato lessicale, ma anche ad altri livelli del linguaggio, e io non credo che abbia affermato che i bilingui potessero rifletterne un tipo solo. Ho trattato dell’intera controversia in numerose pagine del mio libro (pagg. 240-244) e, dopo aver riletto ciò che ho scritto, mi trovo ancora d’accordo con i punti basilari che ho stilato. La conoscenza linguistica del bilingue è fin troppo complessa per poter essere categorizzata in una delle tre categorie quando la maggior parte dei bilingui appartiene un po’ ad ognuna. Per esempio, a livello lessicale, i ricercatori oggi ipotizzano che per uno stesso bilingue alcuni termini nei due lessici avranno una relazione coordinata, altri una relazione composta e altri ancora una relazione subordinata, soprattutto se le lingue sono state acquisite in contesti culturali diversi e in momenti differenti.

  • Potrebbe riassumere brevemente l’essenza del Suo “Modello Bilingue di Accesso Lessicale” (Bilingual Model of Lexical Access)?

Era il 1988 quando proposi un modello di attivazione interattiva del riconoscimento delle parole nei bilingui, che da allora è stato denominato BIMOLA (Bilingual Model of Lexical Access). Fu fortemente ispirato dal modello TRACE di McClelland e Elman ed è regolato da due presupposti base. In primo luogo, si presuppone che i bilingui abbiano due reti linguistiche (tratti distintivi, fonemi, parole, ecc.) che sono indipendenti ma, allo stesso tempo, interconnesse. Sono indipendenti nel senso che permettono a un bilingue di parlare una lingua sola, ma anche interconnesse poiché il discorso monolingue dei bilingue mostra spesso l’interferenza attiva dell’altra lingua, e per il fatto che i bilingui possono ricorrere alla commutazione di codice e prestito piuttosto prontamente quando parlano con altri bilingui.

In secondo luogo, si presuppone che nella modalità linguistica monolingue una rete linguistica sia molto attiva, mentre l’altra viene attivata soltanto debolmente (il livello di attivazione a riposo delle unità di quest’altra rete è perciò molto basso), mentre nella modalità linguistica del bilingue vengono attivate entrambe le reti linguistiche, ma una più dell’altra.

Nel BIMOLA, il livello dei tratti distintivi è comune ad entrambe le lingue, ma i due livelli successivi – fonemi e parole – sono organizzati secondo l’ipotesi del sottoinsieme, cioè entrambi in modo indipendente (ciascuna lingua viene rappresentata da un sottoinsieme di unità), ma anche in modo interdipendente (entrambi i sottoinsiemi sono racchiusi in un insieme più grande). A livello di parole e fonemi, le unità possono avere confini di forma vicini o distanti, sia entro una singola lingua che in entrambe. Le connessioni sono unidirezionali tra tratti distintivi e fonemi, bidirezionali tra fonemi e parole. I tratti distintivi attivano i fonemi che, a loro volta, attivano parole. Le connessioni discendenti che veicolano informazioni sulla lingua di base dell’ascoltatore e sulla sua modalità linguistica servono ad attivare le parole che, a loro volta, attivano i fonemi. L’attivazione della lingua (riflessa dall’attivazione complessiva di un sistema linguistico sull’altro) ha luogo attraverso queste connessioni discendenti, ma anche attraverso le stesse, entro le connessioni linguistiche a livello di fonemi e parole. Il modello è stato perfezionato e realizzato al computer da Nicolas Léwy in questi ultimi anni.

Sordità e bilinguismo

  • Il Suo documento sul diritto del bambino sordo ad essere bilingue è stato tradotto in numerose lingue. Ce ne parli.

Un giorno, nel 1999, mi fu chiesto di fare una breve presentazione sul bilinguismo nei bambini sordi. Come saprà, avevo già redatto diversi documenti sul bilinguismo nei non udenti. Mentre preparavo questo discorso in particolare (e la sua successiva forma scritta), mi venne l’idea di iniziare parlando di ciò che il bambino sordo ha bisogno di fare con la lingua, cioè comunicare molto presto con i propri genitori, sviluppare le proprie capacità cognitive, acquisire una conoscenza del mondo, comunicare pienamente con il mondo che lo circonda, e acculturarsi nel mondo degli udenti e dei non udenti. Poi continuai parlando del fatto che tali comportamenti rivestono una grande importanza per il bambino, dunque l’unico modo per andare incontro a queste sue necessità è di permettergli di diventare bilingue nel linguaggio dei segni e in quello parlato. Il linguaggio dei segni può aiutare a innescare il meccanismo di acquisizione della lingua, a fornire al bambino una lingua naturale nei suoi primi anni, così come a coadiuvare l’acquisizione del linguaggio parlato. Conclusi il documento affermando che non ci si rammarica mai di conoscere diverse lingue, ma ci si può certamente rammaricare di non conoscerne abbastanza, specialmente se in gioco vi è il proprio sviluppo. Il bambino sordo dovrebbe avere il diritto di crescere bilingue, ed è nostra responsabilità garantirgliene la possibilità.

Da allora, questo breve documento ha avuto più successo di qualsiasi altro mio scritto! È stato tradotto in circa 20 lingue (tra queste: cinese, giapponese, russo, spagnolo, ungherese, ecc.) ed è apparso in numerose pubblicazioni.

  • La situazione dei bambini sordi sta cambiando? In alcuni paesi il dibattito “lingua orale e lingua dei segni” infuria ancora.

Credo davvero che le cose stiano cambiando, visto che l’approccio bilingue che molti di noi difendono non mette in dubbio l’importanza della lingua orale, né di quella dei segni. Sono entrambi necessarie, perciò coloro che difendono l’una o l’altra si sentono meno minacciati da questo approccio che rimane a metà strada. Inoltre, dal momento che in recenti ricerche è stato dimostrato che la lingua dei segni può contribuire all’acquisizione della lingua orale, in particolare delle abilità di scrittura, i genitori, gli educatori e i patologi del linguaggio stanno mostrando molto interesse per questo metodo alternativo. Molte scuole nel Nord e nel Sud America (per esempio in Canada, negli Stati Uniti, in Nicaragua, Colombia, ecc.) seguono un approccio bilingue. È quanto accade anche in Scandinavia, nei Paesi Bassi e in altri paesi europei. Altri paesi ancora, lentamente, si stanno aprendo a questo approccio. Credo fermamente che negli anni a venire ai bambini sordi sarà consentito essere bilingui sin dalla più tenera età.

Attuali ricerche

  • Ci dica qualcosa circa le Sue attuali ricerche sul bilinguismo.

Visto che possiedo una formazione come psicolinguista sperimentale, continuo a svolgere esperimenti (e un lavoro di tipo informatico, con N. Léwy) sull’elaborazione del discorso dei bilingui (si veda, ad esempio, il recente studio condotto con D. Guillelmon sull’elaborazione della marcatura di genere nei neobilingui e nei bilingui acquisiti). Lo scopo è quello di meglio comprendere il modo in cui i bilingui elaborano il linguaggio quando si trovano in una modalità monolingue (dunque quando l’altra lingua di cui dispongono è disattivata) e quando si trovano in una modalità bilingue (cioè, quando producono e recepiscono una lingua di base, così come commutazioni di codice e prestiti dall’altra lingua).

Mi occupo anche di redigere documenti sulle persone bilingue e biculturali (udenti e non udenti) e continuo a “lottare” contro le idee radicate (ma false) sul bilinguismo.

In aggiunta, come saprà, in questi cinque anni sono stato molto occupato a scrivere, collaborando con altri redattori, il giornale Bilingualism: Language and Cognition (Cambridge Univeristy Press). Non appena si sarà concluso questo progetto di co-redazione, mi piacerebbe scrivere un altro libro sul bilinguismo che ricapitolerà tutto il lavoro che ho svolto sull’argomento da “Life with Two Languages”.

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